La Strada di Cormac McCarthy è uno di quei libri che disorienta il lettore. Parte lento e sembra ripetitivo in ciò che esprime: la strada, appunto - questo lento, continuo arrancare lungo la strada, nascosti alla strada, paralleli alla strada.
Parrebbe un illusione cinetica. Sembra apatico, lo si percepisce come statico, ma non lo è affatto. Pochi paragrafi dispiegati sulle pagine, ci mostrano un mondo finito dove un padre e un figlio (la madre ha già ceduto, volontariamente) lottano per sopravvivere.
Vanno a sud, nella speranza di trovare un luogo dove il sole riesca a superare la coltre di nubi, ormai perenne, che impedisce ai suoi raggi di riscaldare il pianeta.
La violenza è ovunque sulla strada. Bande di predoni cannibali, che non disdegnano di cibarsi di neonati; gruppi di esseri umani tenuti prigionieri come riserve di cibo; gente pronta a sacrificare il prossimo, condannandolo all’inedia o al congelamento, per pochi barattoli di fagioli.
McCarthy mette in scena un storia post-nucleare, sì, ma che bene si può ricollegare all’essere umano moderno: quante volte, in un lontanissimo passato, i nostri antenati hanno seguito una strada alla ricerca di sole, cibo, compagnia, protezione; quante fughe hanno visto le strade del passato - sebbene strade propriamente dette non fossero.
Nella marcia di padre e figlio, possiamo cogliere l’atavico istinto di sopravvivenza che spinse i primi uomini - appena scesi dagli alberi, e non ancora propriamente eretti - ad abbandonare la boscaglia per inoltrarsi nella savana. E così fanno padre e figlio. Lasciano la sicurezza dei boschi per la strada. La strada come la savana di millenni fa: pericolosa, ma unico luogo dove trovare cibo e luoghi più adatti alla sopravvivenza.
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